Diciassette anni dopo quel fatidico 2008, Felipe Massa torna a indossare il casco: non più un casco da corsa, ma uno legale. L’ex pilota della Ferrari ha riaperto una ferita che, per molti, è ormai parte della storia della Formula 1: il famigerato “Crashgate” di Singapore. Dopo anni di ricordi, interviste e rimpianti, Massa porta la FIA e la FOM in tribunale a Londra, convinto che abbiano insabbiato un episodio che avrebbe potuto cambiargli la carriera. Ma la domanda che sorge spontanea è: perché, Felipe?
C’è qualcosa di profondamente umano e allo stesso tempo malinconico in questa battaglia. È il gesto di chi non riesce a rassegnarsi, di chi sente che una parte di sé è rimasta imprigionata in quella sera di settembre, quando Nelson Piquet Jr. – su ordine del team Renault – si schiantò contro il muro, alterando l’esito della gara. Quella mossa innescò una catena di eventi che colpì anche la Ferrari di Massa, costretta a ripartire dai box con il tappo del serbatoio ancora attaccato. Da lì, la corsa al titolo prese la piega che tutti ricordiamo: Hamilton campione per un solo punto, all’ultima curva dell’ultima gara.
E ora, dopo quasi vent’anni, Felipe è tornato all’offensiva. Non chiede la restituzione del suo titolo mondiale – sa che sarebbe impossibile – ma chiede giustizia morale e, tra l’altro, 82 milioni di dollari di risarcimento. Una cifra che suona quasi surreale, ma che per lui rappresenta il valore simbolico di un sogno infranto.
La risposta della FIA fu immediata. In un documento freddo e burocratico, l’organizzazione definì la causa “contorta” e “eccessivamente ambiziosa”. Tradotto: un’impresa quasi impossibile, come cercare di vincere un Gran Premio senza carburante. E per peggiorare la situazione, la Federazione ricordò a Massa che, in quella stagione, errori e sfortuna non mancarono nemmeno nel box Ferrari. In altre parole: prima di chiedere giustizia al mondo, è meglio guardare indietro al proprio pit stop.
Eppure, al di là dell’ironia e delle dispute legali, intravediamo la fragilità di un uomo che non cerca solo soldi o titoli: cerca la redenzione. Una vendetta contro la storia, contro quell’amara sensazione di aver perso qualcosa di proprio a causa di un sistema rimasto in silenzio per troppo tempo. Forse anche per liberarsi dall’etichetta di “quasi campione”, la più crudele che si possa ricevere in Formula 1.
Ma la realtà è che il tempo, in questo sport, passa più veloce di qualsiasi monoposto. La Formula 1 di oggi parla il linguaggio di Netflix, dei limiti di budget, dei simulatori e dell’aerodinamica intelligente. Il 2008 appartiene ormai a un’epoca lontana, fatta di tute a collo alto, pit stop infiniti e strategie improvvisate.
Quindi sì, caro Felipe, la domanda rimane: chi te l’ha fatto fare? Potrebbe essere l’orgoglio, la nostalgia o la necessità di mettere in pausa una carriera. Ma il rischio è che, nel tentativo di correggere il passato, finiamo per perdere ancora una volta la gara più cruciale: quella con il presente.